06 giugno 2012

Europei 2012: Italia e Spagna, una storia di allievo e maestro, in tempi di Crisi

Per il quotidiano svizzero Il Giornale del Popolo, ho preparato una serie di articoli sugli Europei, una guida sui generis. Ecco la puntata che riguarda il girone C, quello di Italia e Spagna.

http://www.ticinonews.ch/articolo.aspx?id=264623&rubrica=46185


Mal comune, mezzo gaudio? Non sempre, non ovunque. Italia, Spagna e Repubblica d’Irlanda sono, al netto dell’irrecuperabile Grecia, le economie più disperate d’Europa. Si ritrovano nello stesso girone dell’Europeo. Ma se l’Irlanda guidata da un italiano, la dinamo inesauribile di Cusano Milanino, Giovanni Trapattoni, è una formazione che può ritenersi soddisfatta di essere giunta fin qui, Spagna e Italia, vivono situazione differenti.
Il ritornello italiano incentrato sulle mancate vittorie della nazionale spagnola si è andato in questi anni totalmente esaurendo. Il fatto che gli spagnoli stiano dominando sportivamente un po’ ovunque, ne ha acceso un altro: quello sul doping di stato, Fuentes e compagnia. E se nella penisola Iberica, la crisi dell’economia è stata, in un certo senso, resa meno amara dalle vittorie nel deporte, nella penisola italica la frustrazione ha accomunato tutti campi. Per merito essenzialmente del Barcellona, della sua idea di calcio rivoluzionaria, la Spagna ha trovato tante vittorie grazie a una identità specifica che nel passato ha segnato le migliori squadre della storia, dal Brasile alla Germania all’Olanda fino all’Italia. Il tutto mentre gli azzurri hanno completamente smarrito una linea guida, persi in una crisi tecnica (ricambio di giocatori) e filosofica (assenza di una impronta forte di una scuola di tecnici).
Paradigmaticamente, la conquista del Mondiale da parte della squadra di Lippi, nel 2006, è sembrato più una conquista estemporanea che una vittoria vissuta compiutamente. I festeggiamenti ci sono stati, ma permaneva una zona d’ombra nell’ambiente calcistico e nel Paese che non ha sentito “vera” quella vittoria, in special modo se confrontata a quella, magica del 1982, quella di Bearzot, Rossi, Conti e... Pertini. Il Paese stava uscendo dagli Anni di Piombo, le Brigate Rosse si segnalavano per i loro ultimi colpi di coda militari ma era ormai chiara la loro sconfitta ideologica e politica: c’era una sentita fiducia e autostima. La Spagna che cominciava a camminare da sola dopo l’oscurantismo culturale e politico del franchismo festeggiava insieme ai neo campioni del mondo. E gli italiani percepivano questo affetto, sempre considerandosi, da ogni punto di vista, superiori. In fondo, anche per una comunanza latina, l’Italia, allora, poteva essere un punto di riferimento per la Spagna. Gli allievi sono diventati maestri, specie sul campo di calcio, ma non solo.
L’Italia vince il suo ultimo Mondiale, quando è guidata da un governo volenteroso ma debole, con Romano Prodi primo ministro, ma ormai è già caduta nell’oblio berlusconista. E pochi anni più tardi, con il ritorno in sella di Silvio Berlusconi, buona parte del pubblico italiano, ostile al premier, sovrastimerà utopisticamente la parabola politica del socialista spagnolo Zapatero. La Spagna era diventata un obiettivo da raggiungere, un modello da imitare. Come nel calcio, con i media tutti che semplificavano l’assunto: basta il sozzo, impresentabile contropiede, le partite si giocano a viso aperto, col possesso palla.
Nell’ultima stagione la Roma ha scommesso ad occhi chiusi su un allenatore spagnolo, che possedeva, come atout più significativo, l’aver allenato il Barça B. Luis Enrique, che probabilmente diventerà un bravo allenatore, ha pagato anche il fatto che il vento soffiava in una certa direzione. Perché se oggi si legge la rosa di quella squadra, si capisce come la Roma non poteva fare molto più di quello che ha fatto. Eppure negli ultimi tempi, l’Italia ha vissuto sul suo territorio una rivoluzione calcistica-metodologica e vincente, quella perpetrata dall’Inter di José Mourinho, che con l’Inter ha vinto tutto, compresa una Champions League. Ma in pochi hanno percepito il cambiamento, per due ragioni. La prima mediatica: il portoghese non ha mai avuto il sostegno dei mezzi di informazione, ed è sempre stato presentato come l’evoluzione dell’italiano che non si voleva più essere: pratico, furbo, cinico, non esteta. Una lettura superficiale del fenomeno, come ha ben descritto Sandro Modeo nel suo “L’alieno Mourinho”. La seconda ragione è però più pratica: Mourinho non è replicabile, e nemmeno il suo calcio, che non è riassumibile in un modulo, ma più in concetti, anche extracalcistici («chi sa solo di calcio non sa nulla di calcio»). L’unicum Mourinho si è oggi intrufolato nel futbol spagnolo e, nel giro di due stagioni, il portoghese è riuscito nell’impresa di mettere all’angolo il migliore calcio del mondo, quello del Barça e, probabilmente, anche il suo principale ideologo.
Prandelli ha iniziato una battaglia culturale, mirata a costruire un uomo nuovo dentro il giocatore italiano, ma è rimasto filosofo di un pensiero debolissimo, e sostanzialmente mai del tutto compreso dalle masse. In più il suo football rimane un ibrido che mescola diversi stili, ma che non sbocca in una identità precisa. Identità che è stata alla base delle grandi imprese del giovanissimo calcio croato, che ha conquistato addirittura una semifinale mondiale (alfiere, l’ultranazionalista Zvonimir Boban), prima di ritornare a manifestare il solito velleitarismo del calcio slavo. Sotto lo spalatino Bilic c’è stata una piccola ripresa, ma il futuro non appare roseo, anzi. 


CARLO PIZZIGONI

Nessun commento: