17 febbraio 2008

Denilson

Fonte: Gazzetta.it

C’è il dribbling, e in questo fondamentale rimane in maniera indiscussa un principe della categoria, e poi la fase in cui si dovrebbe riconoscere qual è il termine della giocata, e qui casca l’asino. L’eleganza delle movenze di Denilson de Oliveira Araujo (in breve Denilson) se le ricordano tutti, e tutti ne sono rimasti rapiti. Ma che fine ha fatto? Com’è che quel giocatore che aveva entusiasmato a cavallo dell’inizio del nuovo millennio, non si trova traccia? Ha appena firmato per il Palmeiras, un contratto legato alle prestazioni, che di solito non si sottopone ai fuoriclasse, categoria a cui era destinato secondo il parere di molti appassionati. Ritorna in Brasile dopo aver sotterrato il contratto con il FC Dallas, in cui nell’ultimo anno ha sfolgorato con otto presenze e un gol… Ritorna nella sua San Paolo, lui che è cresciuto proprio nella metropoli paulista ma nel Tricolor, il Sao Paulo, la squadra che ha tirato su pure Kakà e che ora sta cercando di rilanciare Adriano.
LE ORIGINI - Dieci anni fa Denilson sfolgorava nelle giovanili del “time” di Morumbi, al cui comando c’era quel Muricy che oggi guida la prima squadra. Denilson e il portiere-star Rogerio Ceni guidavano una super squadra che, con l’innesto di alcuni elementi della squadra riserve, riuscì a conquistare la copa Conmebol, torneo riservato alle prime squadre, le migliori del Sudamerica. Ecco, lì nasceva la magia dell’ “Espressinho”, la squadra di ragazzi che faceva tremare i grandi, e il dribbling di Denilson illuminava San Paolo. Troppo bravo, scalava le vette del calcio brasiliano, grande nel Paulista del 1998 al fianco di un’icona del futebol made in Brazil, Rai, sorprendeva pure indossando la casacca della Seleçao. Troppo forte, e infatti il Betis di Siviglia, tra la sorpresa generale, visto il precedente accostamento a squadre più blasonate, ma grazie a una super offerta di 35 milioni di dollari, gli paga il transoceanico e lo porta in Europa. Correva l’anno 1998. L’inizio della fine.
GIRAMONDO - Sì, perché Denilson brilla ancora in Nazionale, ma il Betis non può lottare coi colossi che si trova attorno. E poi c’è la deriva tecnica, dribbla e rientra, dribbla e rientra: buono per un’esibizione ma l’obiettivo del gioco sarebbe un altro… Nel Mondiale del 2002 clamoroso il suo spezzone contro la Turchia, in semifinale, quando a fine match nasconde la palla a un esercito di giocatori turchi che cercano di sottrargliela in ogni modo. Il pubblico asiatico lo ricopre di “oooh”: quello fu il suo vero addio alle platee luccicanti. Dopo un ritorno in patria poco fortunato nel Flamengo rieccolo in Andalusia, male: meglio cambiare aria. Prova la Francia, il Bordeaux, enclave brasiliana in Aquitania: qualche buona prestazione ma la solita sconsolante mancanza di continuità, e quando si perde palla dopo doppi e tripli dribbling pure qui perdono la pazienza, e piovono i fischi che minano il morale già non troppo stabile di Denilson. Che sceglie la tranquillità, e i (tanti) soldi del campionato saudita. Tecnicamente è un fallimento. Poi lo sbarco negli States e il tentativo di rilancio, a trent’un anni, col Palmeiras di Vaderlei Luxemburgo, in un centrocampo col cileno Valdivia e Diego Souza, che, quantomeno, merita la visione, vista la tecnica di base distribuita in dose massicce un po’ a tutti i protagonisti. Tuttavia, come dimostra la storia, da solo, il talento, anche se sconfinato, come nel caso di Denilson, non è sufficiente. Forse sì, in Europa si “impara a giocare di squadra”, forse: non sempre, però, i maestri sono all’altezza.

Carlo Pizzigoni
Dal sito della Gazzetta

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