02 luglio 2008

Intervista a Pippo Russo

Il Pippo Russo più noto al grande pubblico italiano è quello della rubrica Pallonate, apparsa prima sul Corriere della Sera e poi sul Manifesto, dove non prendeva prigionieri e metteva alla berlina anche i migliori giornalisti sportivi, e non, del Belpaese. Pippo Russo è, però, prima di tutto un sociologo e insegna all’Università di Firenze. Appassionato di calcio, tifoso della Fiorentina, Russo ha magnificamente disegnato la deriva dell’universo calcio nel saggio “L’invasione dell’Ultracalcio.” Spirito fecondo e curioso, ha iniziato da poco una fortunata attività di romanziere (tra poco uscirà la sua terza fatica). Lo abbiamo incontrato per ascoltare il suo punto di vista, la sua decodifica circa i segnali che il mondo del football oggi propone.

Domanda: Il ruolo del calciatore è profondamente cambiato. In campo, e lei ce lo ha ricordato nel suo romanzo “Il mio nome è Nedo Ludi” che narra del cambiamento epocale subito da un calciatore, uno stopper, durante la “rivoluzione culturale” che ha portato il calcio a zona sostituire la marcatura a uomo, ma soprattutto fuori. Ora parliamo più di celebrità che di calciatori…

Il calciatore è diventato la star della contemporaneità, un nuovo tipo sociale di riferimento che sempre più viene utilizzato dall’industria della comunicazione per lanciare e divulgare nuove tendenze. La sua vita pubblica viene confezionata come una sorta di parabola esemplare, senza alcun riferimento a dei fondamenti etico-comportamentali. Anzi, i vizi privati che vengono resi pubblici diventano un segmento dello stile legato al ruolo. Del resto, anche i divi del cinema e della musica vanno da sempre famosi per le loro dissolutezze, e questo contribuisce a costruirne la mitografia. Perché mai avrebbe dovuto andare diversamente nel caso dei calciatori-divi?

E’ incredibile, almeno a degli occhi ingenui, come poi si sia verificata una ricaduta anche su calciatori di livello non eccelso. Ormai lo star system comprende anche giocatori di medio livello, non solo i Vieri o i Del Piero.

Molta comunicazione pubblicitaria utilizza come testimonial calciatori conosciuti soltanto alla cerchia ristretta dei super-appassionati di calcio. Penso alla Bikkembergs, che ha come testimonial Fabrizio Ravanelli e Marco Andreolli. L’esempio è indice di come ormai il calciatore sia, in Italia, portatore di uno status privilegiato a prescindere dall’effettivo valore tecnico-agonistico. E’ un puro testimonial, perché incarna aspirazioni sociali diffuse. Gli è sufficiente essere entrato nell’Olimpo del professionismo per essere indicato come il portatore di una success story da spendere pubblicamente.

A cosa è dovuta questa sterzata, quale la funzione, direi quasi la responsabilità, dei media? Teniamo conto che parliamo di un fenomeno mondiale: possiamo parlare di un derivato degli sport americani che sono sempre alla ricerca dell’evento e in cui spesso capita che è il rating televisivo a decretarne il successo o meno?

La mia idea è che l’avvento della televisione commerciale, e poi quello dei canali neo-televisivi a pagamento, abbia determinato una ristrutturazione simbolica del fenomeno-sport. Il registro sensazionalistico tipico di chi confeziona un prodotto da commercializzare, anziché limitarsi a raccontare un fatto, ha rivoluzionato l’immaginario calcistico e le figure che lo compongono. Ogni gara è un evento, ogni gesto è straordinario, e ogni personaggio un mito contemporaneo. Tonnellate di enfasi che hanno l’effetto di banalizzare tutto e anestetizzare il senso estetico del telespettatore.

Questa contiguità mondo dello spettacolo – mondo dello sport crea un universo unico fatto di Cayenne, Audi q7, Billionaire, Sweet Years, Daytona a cui un tanti aspirano. Si modificano gli oggetti di status, il che è normale. Possibile sia stato il mondo del calcio a muovere questi cambiamenti?

Il mondo del calcio non ha modificato nulla. Anzi, è esso che ha dovuto subire un profondo mutamento. Il mercato ha trovato nel calcio un campo da sfruttare al massimo grado, e lo ha colonizzato facendone un settore della produzione di immagine e stili di vita.

Mi pare evidente che questo nuovo modus vivendi è un punto di riferimento abbastanza diffuso, direi interclassista, nella società attuale. Mi spiego: i big del calcio sono i punti di riferimenti dei ragazzi che passano le giornate nei bar, così come per l’account della società d’élite, per la commessa e per la donna in carriera. Mi sbaglio?

Non vedo interclassismo in tutto ciò. Il fatto che gli eroi dello sport siano personaggi popolari non significa che, automaticamente, essi siano portatori di stili di vita e consumo alla portata di chiunque. Anzi, direi che la glorificazione, da parte dei componenti delle classi sociali meno abbienti, di un tipo sociale super-ricco come il calciatore possa avere l’effetto di anestetizzare ulteriormente le spinte verso una società meno sperequata e più giusta.

Possiamo parlare quindi di nuova Casta di Calciatori? Ma non sto parlando solo di un’élite inarrivabile. Intendo anche, stellianamente, un mondo di sprechi, parvenu, privilegi (pensiamo alle intercettazioni in cui si fa richiesta di sconti su macchine e orologi di lusso). E perché se La Casta di Stella e Rizzo è schifata quella dei calciatori è tutto sommato digerita, quando non proprio idolatrata?

Le condizioni di una Casta ci sono tutte. E se ciò non determina insofferenza presso il pubblico è perché i calciatori regalano sogni e gioie. Ma ciò non significa automaticamente immunità. La caduta può essere fragorosa, perché non c’è nulla di più devastante che l’abbattimento di un idolo.

Pippo Russo, come finirà? E’ un modello destinato ad autodistruggersi?

Certo è difficile ipotizzare che possa andare avanti così ancora per lungo tempo. Il calcio continua a vivere al di sopra delle sue possibilità, e non soltanto in Italia. E non vedo in giro tentativi di rendere il movimento più compatibile.

CARLO PIZZIGONI

Fonte: Corriere del Ticino

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