“Un giorno mi piacerebbe allenare in Svizzera, in un Paese dove il calcio è solo calcio, niente di più.”
In una rara intervista di più di un lustro fa Marcelo Bielsa, attuale a CT del Cile, sceglieva come pietra di paragone la tranquillità rossocrociata come antidoto della sua vita totalizzante: “Penso futbol, parlo di futbol, studio futbol e non posso continuare così, sarebbe meglio, un giorno, moderarmi.” L’allenatore che proprio la Svizzera troverà di fronte ai prossimi Mondiali, sopporta una patologia chiamata calcio, conseguenza probabile di un retroterra educativo e formativo che di solito non accompagna la crescita degli allenatori. Un fratello, Rafael, ministro della Repubblica Argentina sotto il presidente Nestor Kirchner, una sorella, Maria Eugenia, lei pure impegnata in politica e Marcelo un uomo che più di un suo giocatore, insonne, scovava all’alba nel foyer dell’albergo a leggere i giornali, con la sola eccezione le pagine sportive. Perché “chi sa solo di calcio, non sa niente calcio”, come recita José Mourinho, un altro innovatore, destinato come Bielsa, come i Sacchi e i van Gaal, accomunati dal non essere stati giocatori di livello, a creare una frattura in un mondo del calcio che da sempre sposa, a larga maggioranza, una mentalità conservatrice che delega il tecnico al ruolo di mero distributore di undici maglie.
Figlio di una contraddizione tutta argentina, Bielsa nasce, nel 1955, lontano da Buenos Aires, nella borghesia illuminata di Rosario, esattamente come “Che” Guevara (sportivamente più attratto dal rugby). Mescola snobismo alla Borges, attenzione alle classi più umili tutta peronista e impegno civile sul campo (si veda il suo ruolo nel recente terremoto cileno) e ha sviluppato una metodologia di lavoro e un concetto di calcio estremo, claustrofobico e immaginifico come un racconto di Cortazar e definito in un 3-3-1-3 assolutamente originale e “seducente” come ebbe a dire Pep Guardiola, da sempre ammiratore dell’attuale CT cileno e suo ospite a Buenos Aires dove rimase “rapito dalle sue idee innovative.” Il modello-Bielsa non ha un riferimento chiaro e unico nel passato, rifugge dalla sterile divisione tra pro Menotti e pro Bilardo, sempre attiva nel suo Paese, ammira l’Ajax che gestì Louis van Gaal ma non ha mai lavorato in Europa (salvo qualche settimana all’Espanyol prima di essere messo sotto contratto dall’Argentina, dove ha vinto un’Olimpiade) e propone un concetto di football moderno elaborato in maniera originale: “Ero un pessimo giocatore, e ho capito che per diventare un bravo allenatore dovevo studiare educazione fisica. Non mi interessava la ginnastica in sé ma è una materia che tratta il movimento del corpo umano, e il calcio è movimento e riconoscimento degli spazi.” A questo ci aggiunge capacità di leadership notevoli. Kily Gonzales, esterno di lusso e due volte finalista di Champions col Valencia di Hector Cuper, la semplifica con un’immagine: “ avete mai visto Ortega rincorrere un difensore? solo in nazionale con Marcelo, uno che ha piegato alle sue convinzioni gente come Batistuta, Simeone e Sensini...” Uomo di pochi compromessi intellettuali e sportivi Bielsa raccoglie l’unanimità solo tra i tifosi del Newell’s Old Boys, il team rosarino - di cui è tifoso pure Messi - dove ha iniziato la carriera di allenatore, vinto un titolo e sfiorato una Libertadores con un gruppo di ragazzotti. In Sudafrica vorrebbe un’avventura del genere, alla guida dei giovani cileni.
CARLO PIZZIGONI
FONTE: CORRIERE DEL TICINO
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