23 novembre 2006

[preview] Fenerbahce

La calata da oltre il Bosforo si sta preparando. A dire il vero il programma di Aziz Yildirim, presidentissimo del Fenerbahçe, la squadra della zona asiatica di Istanbul, prevedeva già da quest’anno l’esibizione sul palcoscenico più luminoso d’Europa. La Dinamo Kiev e una preparazione non adeguata, hanno lasciato ai canarini di Zico solo l’Europa minore e la possibilità di concentrarsi sulla SuperLig, il campionato turco, che, stante le latitanze di Galatasaray e Besiktas, stanno contendendo alla sorpresa Vestel Manisaspor, squadra molto ben organizzata. Proprio la vittoria a Manisa, a dirla tutta non molto meritata quanto a volume di gioco, ha issato alla testa della classifica il Fenerbahçe e ha, soprattutto, regalato qualche certezza in più a Zico, che proprio padrone di tutto quello che avviene in campo decisamente non pare. Ma il calcio dell’icona flamenguista è volutamente alla ricerca di situazioni più che votato a una organizzazione rigorosa. Dopo la catastrofica campagna ucraina il Fenerbahçe ha messo mano alle casse, sempre più rigonfie grazie ai mille e uno progetti legati al merchandising di stile britannico, e ha portato sotto la mezzaluna laica (a proposito, il padre della Turchia moderna, Kemal Ataturk, tifava per i gialli) pezzi da novanta, a partire da Diego Lugano, centrale uruguagio ricercato da mezza Europa che conta. A fianco del grintoso ex San Paolo, nella difesa a quattro dei turchi, c’è il brasiliano Edu Dracena, altro obiettivo di tanti club importanti. Davanti alla difesa, Deniz è preferito al turco di Ipanema, Marco Aurelio (oggi Mehmet), in un centrocampo dove brilla il talento di Appiah, dietro le punte affinché ci sia anche riconquista alta della palla, e di Tuncay, da un po’ schierato anche a destra nel 4132 di Zico. Davanti, accantonata la formula delle tre punte, il genio di Alex è al servizio di un bomber di razza come Deivid: l’essenzialità di Kezman è seduta in panchina, ma può venir buona a partita in corso.
CARLO PIZZIGONI

Fonte: Guerin Sportivo

[analisi] dopo Svizzera-Brasile

Paolo Galli, giornalista svizzero del Giornale del Popolo di Lugano, analizza Svizzera e Brasile dopo l'incontro di alcuni giorni fa a Basilea.


Svizzera: ci sono gerarchie da cambiare in fretta

A due facce. Una grigia e monocorde, l’altra allegra e viva. La Svizzera contro il Brasile ha dapprima rischiato di fare una figuraccia barbina, quasi dilettantesca, poi ha saputo cancellare tutte le incertezze e proporre un bel gioco, nel contempo fantasioso e concreto. Un segnale confortante prima del virtuale giro di boa di fine anno, un segnale soprattutto rassicurante dopo le recenti preoccupanti prestazioni; una per tutte quella di Innsbruck. Il cambiamento di ritmo è dovuto in gran parte alle mosse azzeccate da Kuhn nella pausa. Dare meriti al CT però è fuori luogo in questo caso, visto che quelle stesse mosse erano da pensare ben prima, magari a inizio gara. Streller e Vogel fuori, Dzemaili e Margairaz dentro, con spostamento di Vonlanthen nel suo ruolo naturale di folletto offensivo. Ma Köbi lo conosciamo, ha gerarchie rigidissime che modifica soltanto dopo lunghe ed estenuanti riflessioni.L’accantonamento di Huggel e Gygax dimostra comunque la sua attenzione crescente in questo senso.
Le giuste sicurezze Un nome su tutti, quello di Barnetta. L’esterno del Bayer è sempre uno dei più pericolosi, dei più vivi e moderni. Uno dei pochi insostituibili di questa nazionale. Con lui, a centrocampo, ha dimostrato di meritare fiducia il duro Cabanas, sempre motivatissimo, anche quando non è magari nella sua migliore serata. La difesa ha varie certezze, quelle cioè che hanno assicurato l’imbattibilità mondiale: Degen (assente contro il Brasile), Müller, Senderos e Magnin. Peccato che questi ultimi non riescano a trovare spazio nei rispettivi club: il prossimo anno sarebbe quindi loro consigliabile una scelta accorta di trasferimento. In attacco Frei ha ovviamente la fiducia del CT, ma anche la punta del Borussia non è sembrata contro il Brasile del tutto a suo agio, anzi... un Alex nervoso più del solito.
Pista, fate largo! Chi invece dovrebbe farsi da parte – o che dovrebbe meglio essere “invitato” a farsi da parte – è in primis Vogel. Il capitano non pare più quel giocatore disposto a tutto pur di vincere, di arrivare, è sazio e tronfio. Più fame ce l’ha Streller, un giocatore al quale non riusciamo a riconoscere alcuna qualità: un briciolo di generosità e quel gol alla Turchia non possono renderlo indiscutibile vita natural durante. Discorso simile per Zubi; il miracolo mondiale doveva essere la grande chiusura di una carriera discontinua e discutibile, e invece ha scelto di andare avanti, decidendo di tenersi il posto di titolare, come se fosse lui solo a decidere (ed infatti...). In quanto a Gygax e Huggel, la scelta di Kuhn di spedirli in tribuna ha regalato qualche sospiro di sollievo ai tifosi. Discorso analogo per il pur disciplinato Wicky, tenuto in panchina. Non sono giocatori inutili ma “in giro” c’è assolutamente di meglio. Le eterne esclusioni di Coltorti, Lustrinelli e Grichting, rincalzi che non trascureremmo con tanta superficialità, fanno capire quanto poco il coach si fidi di loro. Spycher, che ha davanti il titolarissimo Magnin, resta una riserva di lusso, ma appunto una riserva.
Il nuovo che avanza Kuhn li apprezza ma ancora non si fida ciecamente, forse con l’anacronistica paura di non bruciarli. Stiamo parlando dei giovani dello Zurigo, Margairaz su tutti, Dzemaili e, in parte, Inler, ma anche di Benaglio, di Vonlanthen – ieri utilizzato da esterno pur di non togliere Streller –, di David Degen, sicuramente di Behrami (con Barnetta il giocatore più moderno del panorama elvetico). Ad essi aggiungeremmo anche il ticinese Padalino, dimenticato a Piacenza, dove è sempre tra i migliori della squadra leader della serie B italiana. In quanto a Lichtsteiner e Djourou, hanno recentemente alternato ottime prestazioni a gravi capitomboli, sono acerbi ma meritano costante attenzione.
PAOLO GALLI

Brasile: con lo sceriffo è vietato il samba

Si è fatto un gran parlare recentemente della nuova versione della seleçao. Spazio in campo cioè ai calciatori-operai e in tribuna invece ai cosiddetti fenomeni leziosi e ingombranti. Risultati? Troppo approssimativo tracciare bilanci dopo la partita di ieri, ma qualche utile indicazione è emersa comunque con limpidezza. Dando un’occhiata alla formazione scesa in campo ieri, Robinho e Kakà a parte, gli altri erano tutto sommato dei quasi sconosciuti alle nostre latitudini. Nomi nuovi del panorama internazionale, mestieranti, poco artisti. Intendiamoci, qualche fiammata c’è stata, il pallone tra i loro piedi comunque ballava con sufficiente eleganza, ma sulla base di tutta un’altra musica rispetto a quella del Brasile che siamo stati abituati a sognare e desiderare. Ieri parlavamo del Brasile versione 1982, una delegazione splendida quanto fallimentare, mentre quella più recente addirittura non era neppure bella, soltanto fallimentare, la bellezza lasciata sulla carta e nell’inchiostro di giornalisti disattenti e superficiali. Quella attuale, o meglio, quella in divenire non ha apparentemente nulla di bello, dà piuttosto l’idea a tratti di un gruppo di buoni giocatori che si sforza di restare concentrato, ordinato, di spingere con in testa già l’idea della successiva fase di copertura. La fantasia bloccata tra troppi pensieri. «Serviva un Brasile di questo genere». Qualcuno almeno tenta di convincerci di questo. Mah! Alcuni dubbi restano. Siamo abituati ad un’altra musica, ad una bandella che a volte casca in qualche stonatura, ma che ci fa muovere, ci fa sognare e divertire. E non ad un’orchestra di disciplinati e precisi, quanto cupi, suonatori. Samba, bossanova, musica e calcio fatti per ballare stretti, brividi di calore, di colore e di fantasia. Dunga probabilmente riuscirà nella sua missione. Lui è lo “sceriffo”, la stella sul petto la porta con orgoglio e cattiveria, senza lasciare spazio ai sentimentalismi, esagera pur di ottenere una nuova mentalità. Se il fuorilegge sgarra, una prigione in cui sbatterlo la troverà sempre. Un po’ di spazio lo concede, non vuole sembrare ottuso, davvero non lo è, e allora ecco Kakà capitano – e vero e unico leader di questa squadra (ricorda un'altra situazione, non trovate?) – ed ecco Robinho libero di muoversi su e giù da mezzala destra. Poi gli Elano, i Sobis, gente svelta, col piede carico, non fenomeni. E dietro, i suoi sgherri, marcantoni, Fernando e Dudu in prima linea, a coprire altri armadi, Maicon, Luisão, Juan... «È tornato l’ordine in questo schifo di città!» sembra voler dire Dunga. Ma siamo sicuri che questa città facesse poi così schifo e che tutto, ma proprio tutto, era da cambiare?
PAOLO GALLI

18 novembre 2006

[figuras] Gago e Belluschi

Che la sorte ci mantenga l’equidistanza da Boca e River. Abbracciare una delle due sponde potrebbe farci odiare uno dei fenomeni del futuro centrocampo della Nazionale Argentina: Fernando Gago e Fernando Belluschi. Durante l’ultimo Supeclasico entrambi hanno indossato la fascia di capitano dei rispettivi club, a testimoniare l’ormai avvenuta consacrazione. Questa è però solo una puntata delle telenovela, una delle ultime girate in patria, dato che tra poco la sceneggiatura prevede nuove scenari, in Europa. Le menti che hanno costruito la storia si sono fatti un po’ prendere la mano. Fernando Gago tira i primi calci al Saavedra di Ciudadela, Buenos Aires, dove è nato il 10 aprile del 1986 (sic). Si illumina subito l’occhio di Ramon Maddoni, il più celebrato talent scout del paese, per anni gestore del Club Parque, dove sono passati tanti grandi d’Argentina (Riquelme, Tevez, Cambiasso e Redondo), che gli chiede subito di raggiungerlo. Per sei anni lo forgia, prima che intervenga il Boca a portarselo via. In quel periodo, intanto, un giovane proveniente dalla provincia di Santa Fé è alla Ribera per un provino. Il suo rappresentante, Alberto Meo, riesce a convincere i genitori di Fernando Belluschi di lasciare partire l’allora tredicenne da Los Quirquinchos, “solo per una prova”. Ai tecnici delle Inferiores Xeneizes Belluschi lascia immediatamente una buonissima impressione, tanto che è già pronto per lui un posto nell’alloggio dei ragazzi che vengono da fuori città. I genitori del “Pelado”, come lo chiamano nella sua città, non sono per nulla persuasi e la prospettiva di lasciare la famiglia non convince nemmeno la giovane promessa: Rosario è più vicina, crescerà nel Newell’s. I Fernandos si sono forse incontrati in quella occasione, magari hanno pure giocato contro qualche partitella: l’eleganza di Gago era cristallina, ma al Boca hanno subito chiarito che non bastava e da sempre Maddoni gli urlava di “mettercela la gamba”, Belluschi era già allora un tuttofare, un multiruolo che, in sovrappiù, non faceva fatica a vedere la porta. Ok, storia interrotta, le due promesse che non si incontrano e ognuno per la sua strada: avrebbero fatto faville assieme, uno a distribuire, l’altro a incunearsi nelle difese. Tutto finito? No. Dicembre 2004. Fernando Gago ha appena debuttato in prima squadra, al Chino Benitez, interessava poco una carta d’identità che sul campo si dimostrava evidentemente truccata. Belluschi è invece uno dei protagonisti del trionfo nell’Apertura 20o4 del Newell’s: la squadra del Tolo Gallego ha proprio nel giovane Fernando una pietra d’angolo che completa l’asse vincente formato dal portiere paraguayo Justo Villar e da un redivivo Ariel Ortega, decretato fallito in Turchia. Prima dello spuntare del 2005, Mauricio Macri, presidente del Boca, si siede al tavolo coi dirigenti Leprosos: vuole Belluschi, Marino e Garay. Non ha fretta, il dirigente boquense. Vuole solo bloccarli per anticipare i rivali del River: nel giro di qualche mese però Marino se lo porta a casa, gli altri due, in cambio di un milione di dollari per la metà del cartellino di entrambi, restano a Rosario, saranno Bosteros solo nel 2006. Intanto, il Boca constata il fallimento del progetto Benitez e comincia (dopo il no a Macri di Marcelo Bielsa) con il Coco Basile, voluto sulla panchina da Diego Maradona, in quel tempo appena nominato Vicepresidente del Consejo de Fútbol, un ciclo esaltante in cui artiglia trofei nazionali e internazionali. Gago è in costante crescita, le sirene europee sono già fortissime, ma Macri tiene duro convinto che il prezzo che spunterà più avanti sarà altissimo e intanto per fare cassa cede pezzi di minor qualità dell’argenteria di casa: salutano la Bombonera anche il Pato Abbondanzieri e il Pocho Insùa. Arriva il fatidico 2006: arriva il matrimonio? Il River Plate assiste sempre con maggiore amarezza alle continue vittorie del Boca, l’hinchada è furibonda col presidente José Maria Aguilar, incapace di invertire la rotta. Sulla panchina dei Millionarios ritorna, dopo una serie di fallimenti all’estero, Daniel Passarella. Il Kaiser, subentrato a Merlo, vuole rilanciare sé e la squadra della sua vita e nell’ultima campagna acquisti chiede al presidente un estremo sforzo: “Mi prenda Belluschi!” Aguilar da tempo si è mosso per portarlo a Núñez ma solo con l’intervento di una finanziaria straniera (si parla della solita MSI) riesce a trovare il contante per accaparrarsi l’80 % del cartellino (il resto rimane al Newell’s) e i servigi del giocatore. Insomma, ancora buca, per l’unione di cui sopra. Gago è diventato un giocatore completo, un 5 classico, mescolando eleganza ed efficacia, sempre a testa alta, grande idea del gioco sintetizzata dalle parole di José Malleo, allenatore delle giovanili del Boca: “Prima di ricevere la palla Fernando sa quello che deve fare, è il segreto dei grandi centrocampisti, quelli che sanno che la giocata non termina quando si passa la palla: lì comincia.” Ma qui stiamo parlando anche di un ragazzo che i palloni se li conquista, non li distribuisce solamente: un unicum, in prospettiva, proprio per questa caratteristica, superiore a Fernando Redondo, centrocampista a cui, per classe e grazia, è stato più volte accostato. Belluschi ci starebbe benissimo al fianco: giocatore moderno paradigmaticamente riepilogato dalle fredde cifre: in questo campionato è quarto nella classifica di chi tocca più palloni, quinto nella percentuale di efficacia dei passaggi, settimo nella precisione dei tocchi di prima, decimo nei tiri nello specchio della porta e quello che riceve più falli della sua squadra. Universale. Nell’ultimo clasico contro il Boca ha giocato più avanzato rispetto al solito, senza problemi di ambientamento o altro, anche se partendo da dietro diventa più devastante.

Fallita l’unione in Patria, per vederli uniti restano due chances: Europa o nazionale Argentina. In bianco celeste, poco maturi sotto Pekerman (che ovviamente li ha allevati nelle nazionali giovanili), è giunto ora il loro momento. Buona parte della stampa li reclama, Basile vacilla anche perché l’inizio della sua avventura è stato decisamente disastroso, perdendo di goleada con il Brasile e non facendo una grande figura con la Spagna: si chiede una ripartenza convinta. Capitolo Europa: Si dice che Belluschi sia già in orbita Abramovich, mentre il furbo Macri ha organizzato una super asta tra le grandi d’Europa, con Real Madrid e Barça in testa ma in cui non manca la sempre più comune super offerta russa: pare che Evgeni Giner, proprietario del CSKA Mosca, oltre che della compagnia petrolifera Slavneft Oil Company, buon amico del padrone del Chelsea, abbia promesso cifre in cui gli zeri in fondo siano tendenti a infinito. Pochi mesi e vedremo la nuova maglia di Gago, anche se i bookmakers quotano bassa la Spagna.

Ma alla fine, il matrimonio? Le telenovele sono lunghe, ma coi finali affatto prevedibili. L’Argentina se lo augura: Qui viene fuori il centrocampo che dominerà i prossimi mondiali.

CARLO PIZZIGONI

Fonte: Guerin Sportivo

08 novembre 2006

[preview] Royal League

Parte in settimana la terza edizione della Royal League, la Champions League scandinava che raccoglie le quattro migliori classificate della Superliga danese, dell’Allsvenskan svedese e della Tippeliga norvegese. Una competizione modellata sulla falsariga della “vera” Champions, con prima fase a giorni e seconda a eliminazione diretta (da quest’anno però, dai quarti di finale in poi, niente più incontri di andata e ritorno bensì match unico), che secondo l’opinione di molti addetti ai lavori avrebbe una duplice funzione: incrementare il livello qualitativo e lo sviluppo del calcio scandinavo, e porre le basi per la tanto agognata (da molti presidenti dei club locali) unione dei tre campionati nazionali in quella che è già stata definita la Royal SuperLeague, un tema quest’ultimo che interessa anche altri stati (Olanda-Belgio e la loro BeNeLiga, i maggiori club scozzesi) ma nei confronti del quale finora né la FIFA né l’UEFA hanno voluto sentire ragioni. Di seguito una breve presentazione dei gironi e delle squadre.

Gruppo 1 (Brann, Helsingborgs, Odense, Rosenborg)

Dopo un 2005 disastroso, il Rosenborg è tornato al posto che gli compete in Tippeliga, vincendo il suo quattordicesimo titolo negli ultimi quindici anni. Il grande merito per aver rivitalizzato una squadra senza nerbo è da ascrivere al tecnico Per-Mathias Høgmo, non a caso ribattezzato dai tifosi Per-Messias, che però immediatamente dopo la festa-scudetto ha salutato la compagnia annunciando l’intenzione di chiudere con la carriera di allenatore. Un addio che può avere qualche contraccolpo sulla squadra la quale, a dispetto di un collettivo indubbiamente di livello superiore rispetto ai parametri medi del calcio scandinavo, spesso necessita di una spinta “motivazionale” che durante la carismatica gestione-Høgmo non è mai mancata. Anche perché, nonostante il club di Trondheim risulti sulla carta superiore ai principali avversari (la squadra ha tutto: un bomber come Steffen Iversen, rinato una volta rientrato in patria dopo le opache esperienze in Inghilterra, l’esperienza dei veterani Frode Johnsen e Roar Strand, la fisicità dell’eterna promessa Jan Gunnar Solli, la fantasia dello slovacco Marek Sapara e un portiere affidabile come il canadese Lars Hirschfeld), il girone non è facile. Tralasciando il Brann dell’ex Bruges Bengt Sæternes, rivelazione della prima parte della Tippeliga arrivata però a fine stagione con la lingua a penzoloni, sia i danesi dell’Odense che gli svedesi dell’Helsingborg sono clienti da non sottovalutare. I primi, visti in Uefa contro il Parma, sono una squadra tosta e grintosa a cui manca solamente una prima punta dal gol facile, assenza alla quale il tecnico inglese Ricoh sopperisce con un centrocampo a cinque basato sui dinamici Bechara Oliveira e Martin Borre, e sul trequartista svedese Tobias Grahn, abile negli inserimenti e concreto sottoporta. Gli svedesi puntano invece tutto su Henrik Larsson, arrivato in estate a raddrizzare una barca che faceva acqua un po’ da tutte le parti. L’obiettivo quarto posto, l’ultimo disponibile per la Royal League, è stato centrato senza brillare particolarmente, il resto è tutto nelle mani di Henke.

Gruppo 2 (Brøndby, Hammarby, Køpenaghen, Lillestrøm)

Vincitore delle due edizioni precedenti, il Køpenaghen è la grande favorita anche per questa Royal League. Il livello tecnico della squadra è decisamente una spanna sopra a quello di tutte le rivali (Rosenborg escluso), idem la disponibilità economica del club. A sfavore degli uomini di Solbakken potrebbero però giocare le fatiche di Champions, competizione chiaramente fuori portata per la società danese, affrontata però con una determinazione che tante altre “cenerentole” d’Europa si sognano, tanto che è arrivato anche qualche risultato di prestigio (le vittorie contro l’Ajax e il Manchester United). In attacco Markus Allback, pur non essendo un giocatore né da palati fini né da reti a grappoli, garantisce sostanza, sulla destra il terzino Lars Jacobsen spinge che è un piacere, al centro della difesa c’è la diga Micheal Gravgaard, in mediana il nazionale Tobias Linderoth sa far valere la propria esperienza; ciò che manca è un pizzico di fantasia, il giocatore dotato del guizzo che mescola le carte e scombina i piani. A dire il vero ci sarebbe anche quello, ma langue in infermeria; è Jesper Gronkjær, formidabile (a livello tecnico) ma altamente discontinua ala che dopo aver sperperato il proprio talento nei campi di mezza Europa aveva optato per il ritorno a casa allo scopo di “far entrare il Køpenaghen tra le migliori 32 squadre Europa”. Missione compiuta, adesso Solbakken deve solo sperare che il recupero del suo uomo migliore sia quanto più breve possibile. Nel girone l’avversaria più ostica è il Lillestrøm, squadra difficile per tutti da affrontare in un singolo incontro ma priva della continuità necessaria per poter ambire al titolo in un torneo di lunga durata. Una squadra quindi più da Royal League (dove infatti lo scorso anno arrivò in finale) che da Tippeliga, la cui discontinuità è giustificata da un’età media alquanto bassa (nessun giocatore in rosa supera i 30 anni) e il cui elemento migliore è il centrocampista sloveno Robert Koren, assistman per eccellenza (una qualità della quale quest’anno ha beneficiato soprattutto l’attaccante maltese Micheal Misfud, ex Kaiserslautern) ma anche buon finalizzatore. Delle squadre rimanenti, il Brøndby è in piena crisi, stenta in campionato, dove occupa attualmente la settima posizione, e i fasti dell’era Micheal Laudrup, dimessosi nella primavera del 2006 per motivi di natura contrattuale (ma esistevano delle divergenze anche sulla politica orientata al risparmio attuata dalla dirigenza), sembrano lontani già anni luce. Per il piccolo ma ambizioso Hammarby guidato dalle reti del brasiliano Paulinho Guarà, ex Atletico Mineiro, la qualificazione alla Royal League è la conferma dello status di squadra di vertice (nel 2001 è arrivato anche il primo titolo nazionale) raggiunto dal club nell’ultimo quinquennio di Allsvenskan.

Gruppo 3 (AIK Stoccolma, Elfsborg, Vålerenga, Viborg)

Il girone più incerto. Il “vuoto di potere” creatosi quest’anno in Svezia, con tutte e tre le grandi (Djurgarden, Malmö e IFK Göteborg) incappate in una stagione nerissima che le ha fallire anche la qualificazione alla Royal League, per la quale serviva almeno il quarto posto in classifica, ha portato sotto la luce dei riflettori una piccola realtà come l’Elfsborg, che ha vinto il titolo nazionale quarantacinque anni dopo il suo ultimo successo, e una nobile decaduta come l’AIK Stoccolma, piazzatasi da neo-promossa al secondo posto, preceduta dell’Elfsborg per un solo punto. L’equilibrio tra le due compagini è sostanziale; i neo-campioni di Svezia si affidano ai due Svensson, il regista Anders (ex Southampton) e la punta Matthias (ex Portsmouth, Charlton e Norwich), e a un pacchetto arretrato che concede poco, in casa come in trasferta (solo due le sconfitte in tutto il campionato, con 19 reti subite in 26 partite); anche l’AIK punta forte sul pacchetto arretrato, guidato da Johan Mjällby, leone di mille battaglie con la maglia del Celtic Glasgow rientrato in patria dopo una fugace esperienza in Spagna nel Levante, e da Markus Jonsson, terzino destro che sostiene di non aver mai sbagliato un rigore in carriera (nel 2006 ne ha realizzati cinque su cinque per l’AIK). Ai gol ci pensa invece il brasiliano Wilton Figuerido. Il Vålerenga ha vinto la Tippeliga lo scorso anno, ma le intenzioni della dirigenza di costruire una squadra in grado di combattere ad armi pari con il Rosenborg sono state frustrate da un mercato che ha visto partire molti dei pezzi migliori (Iversen, Gashi, Ishizaki) della squadra. Il tecnico Rekdal ne ha preso atto, e si è dimesso a campionato in corso lamentando proprio l’impossibilità, causa mancanza di materia prima, di lavorare in prospettiva futura (basta dire che il miglior giocatore della squadra è risultato essere il 37enne Ronny Johnsen, ex Manchester United degli anni d’oro) per creare una rosa competitiva ai massimi livelli. Ne è nata una stagione altalenante, con un terzo posto in Tippeliga che non ha soddisfatto nessuno, e la certezza che Tore Andrè Flo è ormai ben avviato sul viale del tramonto, tanto da far ipotizzare, anche per i continui guai fisici, un suo ritiro in tempi brevi. Il piccolo Viborg infine veleggia nei bassifondi della Superliga e difficilmente la sua partecipazione andrà oltre il mero atto di presenza, a dispetto di avversarie non certo imbattibili.

ALEC CORDOLCINI, Guerin Sportivo